Il caso di Pellegrina Vitello, la strega che scampò al rogo dell’Inquisizione nella Messina del Cinquecento

di Niccolò Maggio

La vicenda di Pellegrina Vitello, donna di origini napoletane, accusata di “magaria” (ovvero di stregoneria) e processata a Messina nel maggio del 1555 dal Tribunale dell’Inquisizione, scampata fortunosamente al rogo, è specchio di un evento singolare e, insieme, delle modalità con le quali l’Inquisizione siciliana, specie nell’area della Sicilia occidentale, opera e agisce nel XVI secolo in merito a casi di stregoneria, eresia, o di comportamenti considerati dissacratori e immorali, come bestemmie, pratiche di bigamia, incitamenti alla rivolta o atti ritenuti destabilizzanti per l’ortodossia cattolica. Ma è anche testimonianza di una società messinese in fermento economico, commerciale, gravitante attorno al fiorente porto franco della città, nella quale non mancano, tuttavia, casi di usanze, pratiche, rituali connessi a tradizioni, credenze e superstizioni popolari.  

Il fatto storico

Pellegrina, da Napoli, giunge nella città dello Stretto nella prima metà del XVI secolo, insieme al marito, Nardo Vitello, un setaiolo in cerca di fortuna e di migliori prospettive lavorative che presto abbandona la moglie per un’altra donna. Rimasta sola e in ristrettezze economiche, Pellegrina tenta di sbarcare il lunario organizzando, insieme ad alcune complici, qualche piccola truffa a sfondo magico-esoterico, millantando poteri divinatori, utilizzando amuleti e peculiari oggetti considerati comunemente un veicolo di poteri magici. 

Nel marzo del 1555 la trentenne Pellegrina viene accusata da cinque anziane donne messinesi, che le fonti indicano come “pie e cattoliche”, di “magarìa”, ovvero di stregoneria (termine ancora oggi in uso nel dialetto siciliano/messinese, accanto a “mavarìa”, per indicare l’atto di stregoneria o di maledire un oggetto o una persona, mentre con “mavara” si indica il soggetto che compie l’azione).

Presentandosi dinanzi ai giudici del Santo Tribunale dell’Inquisizione, le cinque donne accusano Pellegrina di aver compiuto sortilegi di varia natura, iettature, preparato fatture, invocato demoni, nonché di avere visioni in trance mentre osserva una caraffa d’acqua nella quale comparirebbero strani corpi neri dalle forme demoniache, trance durante le quali la donna sarebbe in grado di prevedere il futuro o di venire a conoscenza di particolari curiosi o eventi prima sconosciuti. 

La Corte è presieduta da Monsignor Bartholomeo Sebastian, Vescovo di Patti, Inquisitore Generale di Sicilia tra 1547 e 1555, noto per il modus operandi zelante e la dura posizione nei confronti delle eresie, nonché per essersi già distinto nel suo ruolo di inquisitore presso l’Ufficio di Granada, nella sua azione di condanna e messa a morte di numerosi ebrei e mori. Don Sebastian è inviato nell’isola come censore del Regno, direttamente da Carlo V, imperatore che persegue una violenta politica repressiva contro i luterani e gli eretici dell’Impero, con lo scopo di fortificare in Sicilia la fede cattolica attraverso la sua santissima missione contro gli eretici, e dove l’Inquisitore diventa il braccio, l’espressione diretta della politica del Governo – il Tribunale dell’Inquisizione Siciliana si distingue infatti per operare in completa autonomia dalla Chiesa di Roma, come emanazione del Governo e dell’Inquisizione Spagnola).

Il processo “super magariam” condotto contro Pellegrina (i cui atti sono stati raccolti e analizzati da Carlo Alberto Garufi e da Sergio Bertolami) ha una durata di quarantadue giorni, relativamente breve rispetto ad altri processi inquisitori del tempo che potevano prolungarsi anche per diversi anni, ed ha inizio il 3 aprile, quando la donna, convocata dal Tribunale, nega le accuse di fronte all’Inquisitore, dichiarandosi innocente e narrando del suo arrivo a Messina in cerca di migliori condizioni economiche e di vita insieme al marito. 

Ammonita una prima volta, per aver «fatto asay magarie et invocato li dimonij», la strega viene incarcerata a causa delle dichiarazioni degli inquirenti che sostengono di avere le prove su fatti che Pellegrina non ha confessato, inerenti l’invocazione di demoni e la pratica di fatture. 

Una situazione che viene aggravata da diverse altre testimonianze: fra le altre quella di aver fornito un pane magico ad un martoriato affinché non potesse testimoniare, quella di cadere in trance mentre formula divinazioni, nonché la preparazione di sortilegi di cui è accusata da un collega setaiolo del marito, che denuncia Pellegrina forse per un suo desiderio sessuale nei confronti della donna, rimasto insoddisfatto. 

Dopo quattordici giorni di prigionia Pellegrina confessa le truffe commesse insieme ad una certa Catherina, la quale fabbricava amuleti all’apparenza maleficiati da porre nelle case di malcapitati cittadini (ad esempio cuori di cera con spilli conficcati) che Pellegrina, informata dalla complice, trovava e rimuoveva sotto compenso in denaro, liberando le abitazioni dal maleficio con strane preghiere e formule rituali. 

L’accusata fa anche menzione di un venditore di ceste che si è rivolto a lei per decifrare uno strano simbolo, una sorta di “segno di Salomone”. 

Tuttavia Pellegrina è condotta nuovamente in carcere dopo la seconda ammonizione, per decisione di Don Sebastian il quale, non soddisfatto della testimonianza, persevera nel sottolineare la connessione fra i presunti poteri divinatori dell accusata e il maligno, un nesso comprovato, secondo il giudizio della Corte, dalla testimonianza di due venditori di ceste che, smarrito un anello, si rivolgono alla donna per ritrovarlo, e questa, incredibilmente, riesce ad indicare con esattezza chi l’avesse rubato e dove fosse stato nascosto. 

Durante il periodo di prigionia il Tribunale raccoglie ben undici testimonianze, contro la media delle sei solitamente ritenute valide e sufficienti per emettere il giudizio finale nei processi dei tribunali dell’inquisizione, tutte comprovanti la colpevolezza di Pellegrina in quanto “magara”. 

i giudici intimano quindi a Pellegrina, per la terza e ultima volta, di confessare tutta la verità, avendo la possibilità di ottenere misericordia se si dimostrasse assennata. 

Pellegrina ammette dunque i reati meno gravi, ma nega le accuse più pesanti riguardanti l’invocazione di demoni e la relazione con il maligno, probabilmente per non compromettere la sua posizione, e sceglie infine di rimettersi al giudizio della Corte. 

I giudici, tuttavia, il 7 maggio, decidono di sottoporre l’imputata alla tortura della corda (tortura che consisteva nel legare con una lunga corda i polsi del reo dietro la schiena e poi nell’issare il corpo per mezzo di una carrucola, causando lo strappo dei muscoli e la slogatura delle braccia all’altezza dell’articolazione delle spalle, a causa della gravità e del peso del corpo) al fine di estorcerle la confessione. 

Per tre volte nell’arco di mezz’ora Pellegrina viene lasciata cadere violentemente dalla trave fra tormenti e gemiti, ma non confessa, rivolgendo le sue preghiere al Signore e allo Spirito Santo, dichiarandosi innocente. 

Così, nonostante una non piena ammissione, per volere dell’Inquisitore Sebastian e del Vicario Generale di Messina Bartolomeo Cantella, Pellegrina è condannata al rogo durante il solenne autodafè (o sermo generalis) – proclamazione solenne della sentenza dell’Inquisitore, cui seguiva la cerimonia pubblica dell’abiura o della condanna al rogo dell’accusato/a strega o eretico – tenutosi nella Piazza della Cattedrale di Messina, nel corse del quale la stessa condanna viene inflitta ad un luterano e ad altre undici persone, tra streghe, bigami e bestemmiatori. 

Lo stesso giorno tuttavia, nonostante le avverse testimonianze raccolte dai giudici, la condanna al rogo viene commutata dal Tribunale e Pellegrina viene costretta ad essere «frustata pubblicamente per li estrati di quista cità» mentre si muove in processione lungo le strade di Messina, con un cero in mano e una mitria in testa, insieme ad altri penitenti, affinché il suo castigo fosse da monito per tutta la popolazione messinese, un segno forte del potere dell’Inquisizione per scongiurare futuri atti di magarìa ed eresie di qualsiasi natura. 

Interessante notare come la presunta arte magica di Pellegrina si confonda e si mescoli con l’attività lavorativa e commerciale del marito nella Messina del XVI secolo, l’arte tessile. La Clavis Siciliae occupa infatti all’interno del Viceregno spagnolo di Sicilia, nel contesto imperiale di Carlo V, una posizione preminente: sede di un porto dinamico e attivo, ma anche centro fiorente per la produzione e il commercio della seta, che dalla città portuale raggiunge i mercati del Nord Europa – attività cui sovrintende dal 1520 il “Consolato dell’arte della seta”. Il processo di produzione della seta coinvolge numerosi strati della popolazione locale, impegnata nel ciclo lavorativo della preziosa materia prima (coltivazione, filatura, tessitura, tintura e ricamo) che, non di rado, per assicurarsi la protezione e il buon completamento della lavorazione della seta, fa uso sia di pratiche religiose che di riti legati alla stregoneria. In questo contesto le “magare” (termine con il quale si indicavano le streghe nella Messina del Cinquecento) e, più raramente, “nigomari” (i maghi, di sesso maschile), integrati nella comunità, sono attivi nel pronunciare scongiuri, fare o disfare sortilegi, o richiesti le loro presunte doti di preveggenza – sono richieste, ad esempio, per compiere riti nei quali dichiarano di prevedere eventuali esiti e rischi legati a trattative economiche o commerciali. 

La vicenda della magara Pellegrina Vitello ha ispirato, fra gli altri, Leonardo Sciascia per i suoi due romanzi (uno di inchiesta, l’altro storico), Morte dell’Inquisitore e La Strega e il Capitano, mentre, più recentemente, il processo dell’Inquisizione alla giovane messinese ha fornito la base di riferimento per un racconto di genere noir – d’avventura dal titolo La Strega di Messina, di Antonino Fiannacca. 

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE DI RIFERIMENTO 

BERTOLAMI, SERGIO, Domina nocturna. Un processo inquisitorio per stregoneria nella Sicilia del Cinquecento, Experiences, Bologna, 2008. 

FIANNACCA, ANTONINO, La strega di Messina, editore Antonino Fiannacca, Ebook, 2020.

GARUFI, CARLO ALBERTO, Fatti e personaggi dell’Inquisizione in Sicilia, Sellerio, Palermo, 1978. 

SCIASCIA, LEONARDO, Morte dell’inquisitore, Adelphi, Milano, 1992; Id., La Strega e il Capitano, Adelphi, Milano, 1999. 

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